Justice League

Ogni tanto e bello pescare nella cesta degli oggetti perfetti un giocattolo difettoso. Di quelli che smonti e rimonti, modifichi a tuo piacimento, butti via per poi concedergli un'altra possibilita. Con il rischio di sembrare faziosi, in questa guerra inutile e immaginaria che 'loro' (per dirla alla Cameron Crowe) hanno creato, e evidente la differenza di forma e sostanza tra un cinecomic targato DC e uno targato Marvel. Provate a indovinare quale dei due e il giocattolo difettoso, quale l'immacolato. Mitologia e tematiche universali contro politica e ideologia americana trasudano da tutti i centimetri di pelle e scenari digitali, mondi antitetici distanti - e il vero fascino risiede proprio qui - uniti nel racconto di cio che oggi la societa desidera, in questi tempi di crisi e terrore: gli eroi, gli dei che non preghiamo piu e che vestono i colori delle nostre bandiere. Gli stessi colori, spenti e ridotti a semplice costume nei film Marvel (fino ad esplodere nel caleidoscopico Thor Ragnarok), diventano in mano alla DC armi da combattimento, lampi di umanita e segni irrequieti; cosi accentuati (come il grigio di Man of Steel o il blu di Batman v Superman) da sembrare lo schizzo di un artista in pieno tormento. Che non sa dove andare, ma ha qualcosa da dire. Un giocattolo affascinante, ma difettoso. Questo e Justice League, prendere o lasciare. Dall'epica del cinema all'epica filmata attraverso uno smartphone, gia l'incipit pensato e realizzato da Zack Snyder vale oro e assume un significato 'poetico': abbandonare il respiro solenne del precedente lavoro e affidarsi ad una concezione della storia piu elementare mai sfiorata finora. Almeno dal regista, che ama rallentarsi e dilatarsi e che qui invece sembra aver imparato la lezione dalla brava e intelligente Patty Jenkins. C'e pero una certa coerenza di intenti fra le prove (alcune riuscite, altre fallite) di casa DC, che dopo aver toccato altezze esagerate - troppo vicino al sole, Icaro - decide di scendere al livello dell'uomo, di farsi piu piccola e non per questo meno ambiziosa. Wonder Woman, manifesto femminista a dimensione di bambina, in tal senso e stato il vero apripista e Justice League, con il suo apparato scricchiolante, ne segue le orme aumentando la posta in gioco. Superman e morto, la Terra e ormai l'hopeless place immaginato da Bruce Wayne/Batman, talvolta contrastato ma mai vinto da Diana Prince/WonderWoman, abbandonato da eroi disillusi come Arthur Curry/Aquaman, in cui vivono anche emarginati senza scopo ne direzione (il nerd Barry Allen/Flash e il sopravvissuto Victor Stone/Cyborg). Uomini di carne, uomini di latta, con un cuore che ha smesso di battere in questo mondo infame. Su di loro Zack Snyder punta tutto, e poco importa se la trama esile si distende e si straccia lungo il percorso, andandosi a infrangere nel piu sciocco dei finali, poco importa la mancanza del rigore, della compostezza, del perfetto cambio di registro ormai caratteristici delle produzioni Marvel; il film e innocente, nell'accezione piu positiva del termine, ha una bonta contagiosa e un entusiasmo quasi infantile, puro. E impossibile da odiare Justice League, figlio di genitori diversi (Snyder, che ha abbandonato in corso per una tragedia familiare, e Joss Whedon, che ha corretto le ultime scene), essere smarrito in un mare di responsabilita, eppure capace di imbastire il divertimento disincantato di cui avevamo bisogno. I difetti sono bellezza e la perfezione e soltanto il miraggio di chi non sa osare. Gratuitamente disponibile su guarda serie...

Il Mio Godard

Ci si potrebbe approcciare a Il Mio Godard scrollandosi di dosso l'idolatria cinefila nei confronti del regista da cui il titolo e considerare il protagonista del film semplicemente come una personalita contraddittoria nella vita privata e politica agli albori del '68. Lo si potrebbe anche fare ma Michel Hazanavicius, autore di questo (bisogna ammetterlo) coraggioso biopic, ha deciso di giocare un'altra partita. Nel portare sul grande schermo il romanzo dell'allora compagna del protagonista Anne Wiazemsky, Hazanavicius non ha infatti solo cercato di immortalare il Godard uomo, ma anche il Godard artista. Ne ha usato lo stile, quei dettagli in bianco e nero marchio della nouvelle vague, ne ha studiato il linguaggio cinematografico con titoli didascalici ad aprire ogni capitolo, ne ha estrapolato i manifesti artistici. Allora, pur volendo, non si puo proprio guardare al Mio Godard come una semplice commedia sugli screzi di due innamorati. Perche, stando alle parole del regista, a questo si voleva mirare: un film prima di tutto divertente che avesse come protagonisti dei personaggi macchiettistici e come sfondo uno dei periodi piu iconografici della nostra storia recente. Pero, se veramente lo scopo era arrivare all'ilarita del grande pubblico, scegliere come protagonista un pezzo (ancora vivente) di storia del cinema e trasformarlo in soggetto ed oggetto comico e un' operazione da principio fortemente sbagliata. Perche i rischi in cui si va incontro sono tanti e questo film ed il suo autore non hanno la maestria per riuscirne ad evitarne nemmeno uno. Il primo era quello di incappare nello sdegno di chi (a ben vedere) vive ancora sotto la fede godardiana, un santuario qui trasformato in un misto di egocentrismo ed incoerenza; il secondo di restare cosi ancorato all'immagine di questa figura da non riuscire ad elaborare variazioni sul tema che sono alla base di una commedia funzionante. Godard che si contraddice, Godard che inciampa, Godard che eclissa la sua compagna: all'ennesima ripetizione di questi passaggi si perde anche il valore dell'intrattenimento. Allora quali erano le vere intenzioni di Hazanavicius, che con The Artist aveva dimostrato di saper come appagare un pubblico non propriamente cinefilo? Il dubbio che la natura vera di questo film sia piu vicina alla parodia che alla bonaria commedia e quasi una certezza, ma rimane quello del perche di tanto disturbo. Sembra di guardare il buffone della classe che prende in giro il secchione, il problema e che non ride nessuno.

The Big Sick

'Essere un buon musulmano e sposare una donna pakistana': si riassumono in due gli inviolabili comandamenti di Azmat (Anupam Kher) e Sharmeen (Zenobia Shroff) per il figlio Kumail (Kumail Nanjiani), aspirante comico da stand up che guarda video su YouTube quando fa finta di pregare e che, invece di una delle donne presentate 'casualmente' dalla madre, si e invaghito di Emily (Zoe Kazan) studentessa di psicologia bianca e americana. Quando, poco dopo essersi lasciati, viene indotto alla ragazza un coma farmacologico, Kumail si ritrovera a riflettere sulla sua vita e sulla sua relazione con Emily, accompagnato inaspettatamente da Terry (Ray Romano) e Beth (Holly Hunter), genitori della giovane. 'Scrivi di quello che conosci'. Un classico. Un consiglio non sempre azzeccato, ma vincente per Kumail Nanjiani che, alle prese con la sua prima sceneggiatura per il grande schermo, The Big Sick, si e cimentato nell'adattamento cinematografico della storia d'amore con la moglie Emily V Gordon, co-sceneggiatrice del film che vede tra i produttori Judd Apatow. Non ci troviamo pero di fronte alla versione rumorosa e graffiante dei suoi ultimi successi piu commerciali, da Bridesmaide a Trainwreck, ma a qualcosa di piu vicino a Freak & Geeks e a Love. Diretta da Michael Showalter (Hello, My Name is Doris), la pellicola e una rom- com cui le due anime, quella comica e quella romantica, si sposano in un giusto equilibrio per affrontare con leggerezza i conflitti interculturali esistenti non solo in un rapporto romantico, ma anche in relazione alla propria identita. A far funzionare di The Big Sick e la delicatezza e l'ironia con cui la malattia viene affrontata, evitando la piu banale e battuta delle strade: quella del melodramma strappalacrime. Anzi, Emily quasi scompare durante il suo coma. Come il suo corpo, e una protagonista passiva. E la causa scatenante della presa di coscienza di Kumail, dell'evolversi delle dinamiche tra i suoi genitori. La malattia e qualcosa che succede agli altri e che da quella prospettiva e filtrata per noi, con affetto, ma anche con umorismo. E condita con situazioni imbarazzanti un po' sopra le righe, ma plausibili. Il merito va indubbiamente alle performance degli attori: quella di Kazan che riesce a conquistare anche con poche scene, quella di Nanjiani, con un'ottima padronanza dei tempi da comico abituato ad intrattenere, ma soprattutto quelle delle due famiglie. Tra le due, e sicuramente quella di Emily a spiccare. A Terry e Beth viene lasciato piu spazio e viene affidato il compito di funzionare da esempio, da elemento catartico per Kumail, mentre la sua famiglia, per quanto non marginale, rimane invischiata negli stereotipi che le sono stati affibbiati e che ne limitano l'efficacia, per quanto siano fonte di risate. Accolto con calore al Sundance e premiato dal pubblico al Festival di Locarno, The Big Sick conquista facilmente, sebbene non abbia la stessa carica prorompente e politically incorrect di molti sketch di Nanjiani. A sancire il suo successo e quel giusto mix di umorismo, tenerezza e romanticismo - senza mai essere melenso - che fa uscire dalla sala sorridendo.

Happy End

Michael Haneke ha intitolato la sua ultima fatica cinematografica Happy End. Lieto fine. Eppure non c'e, ne puo esserci lieto fine per le anime perdute che si aggirano nel vuoto cosmico della pellicola, incrociandosi di tanto in tanto e poi allontanandosi nuovamente. Anzi, il vuoto puo essere considerato il vero protagonista di Happy End: il vuoto sentimentale e morale che affligge una famiglia altoborghese; il distacco non solo dalla realta circostante e dalla servitu che li accudisce, ma anche fra gli stessi familiari; infine, la distanza fra personaggi e macchina da presa. In assenza di una colonna sonora, un silenzio straniante avvolge la villa dei Laurent, in cui vive la famiglia allargata. Il patriarca Georges (Jean-Louis Trintignant), ormai vecchio e sconfitto, ha ceduto le redini della sua impresa edile alla figlia Anne (Isabelle Huppert), i cui unici interessi sono gli affari e il mantenimento delle apparenze a dispetto del comportamento irresponsabile di suo figlio Pierre (Franz Rogowski). Tutti loro vengono messi sotto il microscopio dalla silenziosa Eve (Fantine Harduin), figlia del fratello di Anne, Thomas (Mathieu Kassovitz). L'inquietante ragazzina ricorda moltissimo la piccola Paloma di L'eleganza del riccio, con la sua bizzarra ossessione per l'avvelenamento, i sonniferi testati sugli animali domestici e i filmati amatoriali. A questo proposito, i frammenti di video realizzati con lo smartphone sono tra le migliori trovate del film, e sottolineano come la tecnologia possa approfondire la distanza tra le persone; un tema presente anche nella relazione adultera che Thomas intrattiene con una violoncellista, fatto quasi esclusivamente di messaggi spinti scambiati su Facebook. Il tutto ricorda un po' il romanzo 'E un problema' di Agatha Christie: un'enorme casa in cui si vive circondati da lusso e segreti, con tanto di anziano capofamiglia in declino e nipotina insinuante. Ha qualcosa dell'horror, questo Happy End: ognuno a modo proprio, tutti i Laurent sono dei mostri. La morte e sempre presente: misteriosa, spesso inattesa, a volte voluta. Ma tra un incipit fulminante e un bellissimo finale il ritmo si perde, il vuoto si fa un po' troppo pervasivo. I buchi nella narrazione, piu che funzionali alla storia, sembrano volutamente oscuri, mirati a confondere lo spettatore. Come le frasi del vecchio Georges, spesso ripetute nella sua demenza senile, scene pressoche identiche si ripetono inutilmente, per puro gusto estetico. E non c'e dubbio che Happy End sia bellissimo da vedere: ma e una bellezza sterile, sicura, che non si assume rischi. Non a caso Haneke riprende il tema dell'eutanasia dal suo capolavoro Amour, vincitore del premio Oscar come miglior film straniero. Cosi come non c'e nulla di nuovo nella critica all'alta societa che ha perso i suoi valori, infatti di disamine sulla borghesia francese e la banalita del male e pieno il cinema. Ormai sembra un genere fatto su misura per gli stessi privilegiati che critica, un modo per esorcizzare il senso di colpa, vergognarsi per un'ora e mezza e poi tutto come prima. Chi cerca di andare contro corrente viene prontamente zittito, come il giovane Pierre Laurent, la cui ribellione allo status viene sminuita, ridotta a meschina intemperanza giovanile. Parafrasando l'opera dello stesso Haneke, l'estetica fine a se stessa ha soffocato con un cuscino qualsiasi significato, e cosi facendo ha perso ogni senso della direzione. Ecco perche a fine visione si esce dalla sala colpiti, certo, dalla potenza del finale, ma con l'amaro in bocca.